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Memoria, a Terezìn la grande sceneggiata nazista

La Sceneggiata Nazista. E pensare che i nazisti riuscirono a imbrogliare l'intera comunità internazionale, facendo passare Terezìn come un campo modello, dove gli ebrei sembravano quasi in vacanza. Il trucco si rivelò così ben congegnato che anche la Croce Rossa ci cascò, anche se c'è chi sostiene che questa non volle sforzarsi più di tanto per vedere quella che era la cruda realtà. L'episodio risale al maggio del 1944, quando la Croce rossa danese chiese di visitare il ghetto, per verificare in che condizioni vivessero i 500 ebrei danesi lì deportati. Dopo un lungo tira e molla Adolf Eichmann, il responsabile del campo concesse all'organizzazione umanitaria la possibilità di entrare a Terezìn. Non prima, ovviamente, di avere avuto il tempo di sfoltire la popolazione, mandando 3mila ebrei ad Auschwitz, e di mettere in piedi una vera e propria sceneggiata, una città modello fasulla con negozi, locali e teatri costruiti in pochi giorni e subito abbattuti dopo che i rappresentanti della Croce Rossa abbandonarono il campo convinti che gli ebrei non stessero poi così male come si diceva. L'operazione si rivelò talmente riuscita che i tedeschi girarono anche un film a scopo propagandistico per dimostrare la situazione di benessere in cui si trovavano gli ebrei di Terezìn. Le riprese iniziarono il 26 febbraio del 1944 e a dirigere il lungometraggio fu chiamato Kurt Gerron, che, una volta terminate le riprese, venne deportato ad Auschwitz insieme alla maggior parte del cast. Le camere a gas fecero il resto. Alcuni spezzoni del film sono reperibili su Internet, basta inserire in un motore di ricerca le parole: Terezìn, documentario, ebrei. Nel video si vedono gli internati sereni e intenti a lavorare, le donne e i bambini correre per le strade, felici.

RepubblicaCeca Terezìn CampoDiConcentramento3Di bambini a Terezìn, come detto, ne passarono 15mila e i tedeschi li utilizzavano, fin da molto piccoli, anche per i lavori più pesanti e aberranti, come lo smistamento delle ceneri dei cadaveri - morti di fame, malattie, torture perché a Terezìn le camere a gas non c'erano - bruciati nel forno crematorio. A parte questo i nazisti facevano poco caso ai ragazzi e lasciavano che della loro educazione si occupasse il consiglio ebraico del ghetto. Gli adulti presero molto a cuore l'educazione dei bambini e dei ragazzi e ad ogni baracca fu assegnato un adulto che impartiva loro lezioni scolastiche di nascosto. Molto importanti sono le testimonianze di questi giovani che venivano sollecitati dagli adulti ad esprimere con il disegno, con la poesia, con il teatro, con la musica, con la pratica dello sport i propri sogni e i propri desideri. In particolare un insegnante d'arte del ghetto, Friedl Dicker-Brandeis creò una classe di disegno per i bambini che produssero oltre 4mila schizzi sulla vita d'inferno a Terezìn. Dicker-Brandeis riuscì a salvare i disegni dalle epurazioni finali dei nazisti e dieci anni dopo la fine del conflitto queste valigie furono ritrovate con i disegni al loro interno. Molti di questi, come anticipato sopra, ora sono esposti al Museo ebraico di Praga che abbiamo visitato nella mattinata del 23 aprile, prima di recarci a Terezìn.

Piccola Fortezza. Dopo aver percorso le vie di quello che fu il ghetto andiamo alla piccola fortezza, costruzione del 1780, che dal 10 giugno del 1940 fu utilizzata dalla Gestapo come quartier generale, come carcere e luogo di tortura, fucilazione e impiccagione di prigionieri politici ed ebrei. Se non fosse per il cimitero nazionale creato davanti al suo ingresso - dove, sovrastati da una croce cristiana e da una stella di Davide, riposano i resti di circa 10mila vittime del carcere militare, del ghetto ebraico e del campo di concentramento - la costruzione sembrerebbe del tutto simile ai fortini austro-ungarici che si possono trovare anche dalle nostre parti. D'altro canto la piccola fortezza non è stata costruita dai nazisti, ma dall'imperatore austriaco Giuseppe II nel 1780. La firma degli uomini di Hitler, però, si nota immediatamente all'ingresso dove campeggia la scritta, comune in tutti i campi di concentramento e sterminio del terzo reich, "Arbeit Macht Frei" (il lavoro rende liberi). Con la guida iniziamo la visita del campo ed entriamo nel primo cortile suddiviso nei blocchi A e B in cui si trovano 17 celle comuni e 20 d'isolamento capaci di contenere fino a 1500 prigionieri. Vediamo le prime camerate dei prigionieri, praticamente rimaste intatte. Ci sono ancora i letti in legno disposti su tre piani, che arrivavano a contenere da un minimo di 60 a un massimo di 100 persone con a disposizione un solo gabinetto e un solo lavabo, entrambi, tuttora, ben visibili.

Va da sé che in quelle condizioni di promiscuità e scarsissima igiene - volute dai carcerieri nazisti - si diffusero malattie infettive, come il tifo petecchiale, capaci di mietere migliaia di vittime che vennero smaltite prima nelle fosse comuni, poi nel forno crematorio giù nella grande fortezza ai margini del ghetto. La guida esce dalla camera, i ragazzi la seguono, tranne un paio che rimangono a osservare, increduli, i letti e cercano, confrontandosi fra loro, d'immaginare come potessero starci 90-100 esseri umani in quella stanza. Il mesto tour prosegue per le celle d'isolamento riservate ai prigionieri ritenuti più pericolosi. Pertugi bui e stretti, senza finestre. La guida prende un ragazzo del Virgilio per un braccio, lo invita a rimanere chiuso in una di quelle celle per qualche minuto. Una volta fuori il giovane è pallido, sconvolto, non parla. Attraverso il buio corridoio sotterraneo della fortezza arriviamo alla zona in cui i nazisti effettuavano le esecuzioni capitali dei prigionieri attraverso fucilazione e impiccagione. Rimangono a testimoniarlo un piccolo albero, una forca ancora intatta e una sorta di deposito dove venivano ammassati i cadaveri. Si calcola, approssimativamente, che qui vennero giustiziati almeno 800 prigionieri.

In memoria degli ebrei mantovani. In questo luogo di strazio e dolore Fabio Norsa, il presidente della ComunitĂ  Ebraica mantovana, chiede un attimo di raccoglimento per commemorare i 104 ebrei mantovani deportati e ammazzati nei campi di sterminio: scandisce i nomi, a uno a uno; i ragazzi del Mantegna e del Virgilio non fiatano, ascoltano, alcuni sembrano commossi. "Quelli che furono ammazzati ad Auschwitz ( la maggior parte, ndr) - ricorda Norsa - morirono tutti il 10 giugno del 1944. Partirono da Mantova cinque giorni prima, ammassati su un carro bestiame".

Il quarto cortile. Uscendo dalla zona del patibolo si passa il quartiere delle SS, con la casa padronale, la piscina e il cinema. Proseguendo si arriva al cosiddetto "quarto cortile". Costruito nel 1943, vide arrivare i primi detenuti nell'autunno del 1944 e nell'ultimo periodo dell'occupazione nazista in queste mura passarono piĂą di tremila persone e in ogni cella comune erano rinchiuse fra le 400 e le 600 persone. All'interno di una di queste si conclude la visita al campo e la guida, un piccolo e simpatico signore ceco, coi capelli bianchi in perfetto ordine, saluta i ragazzi e si augura di incontrarli di nuovo, magari in un luogo meno triste di questo.

Krematorium. Ultima meta è il krematorium del ghetto posto a qualche chilometro dalla piccola fortezza. Da fuori sembra una costruzione qualunque, ma tutt'intorno centinai di lapidi e un enorme menorah in marmo, candelabro ebraico simbolo della perfezione di Dio, ricordano che lì andò letteralmente in fumo la vita di migliaia di ebrei. All'interno il forno è intatto, drammaticamente ben tenuto, tanto che sembra quasi non abbia mai smesso di svolgere la propria macabra funzione di "polverizzatore della vita". La visita al krematorium scuote emotivamente i ragazzi del Mantegna e del Virgilio, che perdono quasi l'uso della parola per qualche minuto. Solo una ragazza, andando verso il pullman, ci si avvicina: "Scusi, posso farle una domanda? Ma a che serve ricordare tutti questi orrori, vederli da vicino, toccarli quasi con mano, se poi c'è sempre qualcuno pronto a ripetere gli stessi sbagli, a fare guerre, a umiliare i più deboli?". Bell'interrogativo. L'unica risposta che ci viene in mente è che serve. E a dimostrarlo è la domanda stessa.

Emanuele Salvato


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