Memoria, a Terezìn la grande sceneggiata nazista
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- Creato 27 Gennaio 2017
- Pubblicato 27 Gennaio 2017
Riproponiamo in occasione del Giorno della Memoria un reportage realizzato nel 2009 da Emanuele Salvato.
Si tratta della visita al campo di sterminio di Terezin, in Repubblica Ceca. Il campo tristemente noto per aver imprigionato 15mila bambini: solo 100 di loro sono sopravvissuti. Il racconto fa parte del libro "Viaggio nella Memoria - 2006-2010: visite d'istruzione nei campi di sterminio di Ravensbruck, Auschwitz, Mauthausen, Terezin, Natzweiler-Struthof" pubblicato dall'assessorato alle politiche sociali della Provincia di Mantova.
Ci sembra un modo concreto e non retorico per sottolineare quanto sia importante la Memoria e quanto sia fondamentale non dimenticare quali atrocità abbia potuto commettere l'essere umano in nome di un ideale distorto, malato, folle. Sbagliato.
Abbiamo scelto di proporre il reportage nella categoria degli editoriali perché se è vero che per un giornalista è importante seprare i fatti dalle opinioni, crediamo ci siano anche fatti che non lasciano spazio a opinioni, perché quello è stato. Senza se e senza ma.
TEREZÌN (Repubblica Ceca) - "Siamo abituati a piantarci su lunghe file alle sette del mattino, a mezzogiorno e alle sette di sera, con la gavetta in pugno, per un po' d'acqua tiepida dal sapore di sale o di caffè o, se va bene, per qualche patata. Ci siamo abituati a dormire senza letto, a salutare ogni uniforme scendendo dal marciapiede e risalendo, poi, sul marciapiede. Ci siamo abituati agli schiaffi senza motivo, alle botte, alle impiccagioni. Ci siamo abituati a vedere la gente morire nei propri escrementi, a veder salire in alto la montagna delle casse da morto, a vedere i malati giacere nella loro sporcizia e i medici impotenti. Ci siamo abituati all'arrivo periodico di un migliaio di infelici e alla corrispondente partenza di un altro migliaio di esseri ancora più infelici...". Scriveva così Petr Fischl, 14 anni, sul suo diario ritrovato fra i resti di quello che fu il campo di concentramento nazista di Terezìn, cittadina a 65 km a nord di Praga.
Petr, deportato nel dicembre del 1943 nella città trasformata in ghetto dai seguaci di Hitler, come buona parte dei 15mila ragazzi ebrei (neonati compresi) qui imprigionati, non fece mai ritorno a casa e morì ad Auschwitz dieci mesi dopo. Parole come amore, gioia, spensieratezza, per il ragazzo ebreo non hanno mai avuto alcun senso. Per lui, e gli altri giovani prigionieri di Terezìn, solo la morte e la sofferenza hanno significato qualcosa, perché in quella città trasformata in inferno dalla lucida follia dei nazisti non c'era spazio per vivere, ma solo per soffrire e morire. Salvarsi era l'eccezione. Chissà se tutti i 48 studenti dell'Itas Mantegna e del linguistico Virgilio di Mantova, che lo scorso 23 aprile hanno visitato questi luoghi, hanno compreso appieno quale devastazione emotiva e fisica abbiano vissuto ragazzi come loro più di 60 anni fa? La domanda non è retorica: a leggere alcuni degli scritti riflessivi sulla visita, che ci siamo fatti consegnare poco dopo l'uscita dal lager, sembra che alcuni - soprattutto i ragazzi stranieri, forse più vicini per vissuto a esperienze di emarginazione e difficoltà d'integrazione - l'abbiano capito; gli altri non si sa. Almeno non è chiaro, forse per colpa nostra, che non siamo in grado di leggere nelle loro menti. Certo l'intento dell'assessore provinciale Fausto Banzi - che da quattro anni organizza questi viaggi della memoria in collaborazione con Fabio Norsa della Comunità ebraica mantovana - è quello, nobile, di fare in modo che le nuove generazioni non dimentichino mai quali atrocità (inimmaginabili tuttora per alcuni aspetti) sia stato in grado di compiere l'uomo in nome di un'idea malata, malsana, deviata, patologica.
La giornata dedicata alla memoria inizia molto presto in un albergo di Praga 2. Il ricordo di Dresda, vista il giorno prima, è ancora vivo nella mente ma viene scalzato dalla sveglia che suona alle 7. Colazione veloce e via di corsa verso il quartiere ebraico della capitale ceca. Una visita lampo, a disposizione solo la mattinata, permette di vedere il cimitero ebraico e la sinagoga Pynkas, la più antica di Praga, ora monumento ai 77.297 ebrei del protettorato di Boemia e Moravia assassinati dai nazisti. I loro nomi sono riportati, in ordine alfabetico e secondo il luogo di provenienza e nome della famiglia, sulle pareti della sinagoga. Uno spettacolo che toglie il fiato. Peccato che una minima dimensione interiore di raccoglimento, necessaria quando si entra in un mausoleo della memoria, sia difficile da trovare a causa delle moltissime persone che l'affollano petulanti. Fuori dalla Pynkas l'atmosfera non è molto diversa e anche la successiva visita al cimitero ebraico avviene nella più totale confusione, mitigata, per fortuna, dalle opportune spiegazioni di Fabio Norsa, prodigo di utili informazioni sul luogo di sepoltura. Nel tortuoso percorso fra le 20mila lapidi - spesso tempestate di sassolini del ricordo che tengono fermi biglietti colmi di desideri - meritevole di una sosta è la tomba del rabbino Low ben Bezalel, morto nel 1609 e inventore del Golem, il leggendario gigante di terra e argilla creato per proteggere la comunità ebraica. Fuori dal cimitero la strada conduce alla sinagoga Maiselova che adesso contiene una toccante mostra permanente dei disegni dei bambini rinchiusi nel ghetto di Terezìn, nostra meta del pomeriggio.
Arriviamo a Terezìn con il sole che si nasconde fra una nuvola e l'altra. Con il pullman percorriamo le strade di quello che fu il ghetto ebraico creato dai nazisti nel 1941, ma è quasi impossibile trovare appigli visivi per avere un'idea di quello che era allora la cittadella fortificata di Theresienstadt. Ora ci sono ristoranti, bar, abitazioni; è vero c'è il Museo del ghetto e, poco più in là , è rimasto intatto anche il Krematorium, ma serve uno sforzo di memoria forse troppo grande per cercare solo di immaginare quello che fu l'inferno di Terezìn dal 24 novembre 1941. In quella data, infatti, i nazisti fecero sfollare i 7mila abitanti della cittadella per fare posto a circa 150mila ebrei, per lo più provenienti dal protettorato di Moravia e Boemia, ma anche da altre zone d'Europa. Il piano era chiaro, anche se ben camuffato: utilizzare il ghetto come stazione di transito verso i campi di sterminio, Auschwitz in primis. Nel frattempo, a eliminare moltissimi prigionieri ebrei ci pensarono la fame, le malattie che si diffusero per il sovraffollamento, e le torture dei soldati nazisti. Alla fine furono 144mila gli ebrei che transitarono per il ghetto, di questi 33.529 vi morirono, 88.196 finirono nelle camere a gas dei campi più o meno vicini, solo 17.247 si salvarono l'8 maggio del 1945, quando la città venne liberata dai russi.
La Sceneggiata Nazista. E pensare che i nazisti riuscirono a imbrogliare l'intera comunità internazionale, facendo passare Terezìn come un campo modello, dove gli ebrei sembravano quasi in vacanza. Il trucco si rivelò così ben congegnato che anche la Croce Rossa ci cascò, anche se c'è chi sostiene che questa non volle sforzarsi più di tanto per vedere quella che era la cruda realtà . L'episodio risale al maggio del 1944, quando la Croce rossa danese chiese di visitare il ghetto, per verificare in che condizioni vivessero i 500 ebrei danesi lì deportati. Dopo un lungo tira e molla Adolf Eichmann, il responsabile del campo concesse all'organizzazione umanitaria la possibilità di entrare a Terezìn. Non prima, ovviamente, di avere avuto il tempo di sfoltire la popolazione, mandando 3mila ebrei ad Auschwitz, e di mettere in piedi una vera e propria sceneggiata, una città modello fasulla con negozi, locali e teatri costruiti in pochi giorni e subito abbattuti dopo che i rappresentanti della Croce Rossa abbandonarono il campo convinti che gli ebrei non stessero poi così male come si diceva. L'operazione si rivelò talmente riuscita che i tedeschi girarono anche un film a scopo propagandistico per dimostrare la situazione di benessere in cui si trovavano gli ebrei di Terezìn. Le riprese iniziarono il 26 febbraio del 1944 e a dirigere il lungometraggio fu chiamato Kurt Gerron, che, una volta terminate le riprese, venne deportato ad Auschwitz insieme alla maggior parte del cast. Le camere a gas fecero il resto. Alcuni spezzoni del film sono reperibili su Internet, basta inserire in un motore di ricerca le parole: Terezìn, documentario, ebrei. Nel video si vedono gli internati sereni e intenti a lavorare, le donne e i bambini correre per le strade, felici.
Di bambini a Terezìn, come detto, ne passarono 15mila e i tedeschi li utilizzavano, fin da molto piccoli, anche per i lavori più pesanti e aberranti, come lo smistamento delle ceneri dei cadaveri - morti di fame, malattie, torture perché a Terezìn le camere a gas non c'erano - bruciati nel forno crematorio. A parte questo i nazisti facevano poco caso ai ragazzi e lasciavano che della loro educazione si occupasse il consiglio ebraico del ghetto. Gli adulti presero molto a cuore l'educazione dei bambini e dei ragazzi e ad ogni baracca fu assegnato un adulto che impartiva loro lezioni scolastiche di nascosto. Molto importanti sono le testimonianze di questi giovani che venivano sollecitati dagli adulti ad esprimere con il disegno, con la poesia, con il teatro, con la musica, con la pratica dello sport i propri sogni e i propri desideri. In particolare un insegnante d'arte del ghetto, Friedl Dicker-Brandeis creò una classe di disegno per i bambini che produssero oltre 4mila schizzi sulla vita d'inferno a Terezìn. Dicker-Brandeis riuscì a salvare i disegni dalle epurazioni finali dei nazisti e dieci anni dopo la fine del conflitto queste valigie furono ritrovate con i disegni al loro interno. Molti di questi, come anticipato sopra, ora sono esposti al Museo ebraico di Praga che abbiamo visitato nella mattinata del 23 aprile, prima di recarci a Terezìn.
Piccola Fortezza. Dopo aver percorso le vie di quello che fu il ghetto andiamo alla piccola fortezza, costruzione del 1780, che dal 10 giugno del 1940 fu utilizzata dalla Gestapo come quartier generale, come carcere e luogo di tortura, fucilazione e impiccagione di prigionieri politici ed ebrei. Se non fosse per il cimitero nazionale creato davanti al suo ingresso - dove, sovrastati da una croce cristiana e da una stella di Davide, riposano i resti di circa 10mila vittime del carcere militare, del ghetto ebraico e del campo di concentramento - la costruzione sembrerebbe del tutto simile ai fortini austro-ungarici che si possono trovare anche dalle nostre parti. D'altro canto la piccola fortezza non è stata costruita dai nazisti, ma dall'imperatore austriaco Giuseppe II nel 1780. La firma degli uomini di Hitler, però, si nota immediatamente all'ingresso dove campeggia la scritta, comune in tutti i campi di concentramento e sterminio del terzo reich, "Arbeit Macht Frei" (il lavoro rende liberi). Con la guida iniziamo la visita del campo ed entriamo nel primo cortile suddiviso nei blocchi A e B in cui si trovano 17 celle comuni e 20 d'isolamento capaci di contenere fino a 1500 prigionieri. Vediamo le prime camerate dei prigionieri, praticamente rimaste intatte. Ci sono ancora i letti in legno disposti su tre piani, che arrivavano a contenere da un minimo di 60 a un massimo di 100 persone con a disposizione un solo gabinetto e un solo lavabo, entrambi, tuttora, ben visibili.
Va da sé che in quelle condizioni di promiscuità e scarsissima igiene - volute dai carcerieri nazisti - si diffusero malattie infettive, come il tifo petecchiale, capaci di mietere migliaia di vittime che vennero smaltite prima nelle fosse comuni, poi nel forno crematorio giù nella grande fortezza ai margini del ghetto. La guida esce dalla camera, i ragazzi la seguono, tranne un paio che rimangono a osservare, increduli, i letti e cercano, confrontandosi fra loro, d'immaginare come potessero starci 90-100 esseri umani in quella stanza. Il mesto tour prosegue per le celle d'isolamento riservate ai prigionieri ritenuti più pericolosi. Pertugi bui e stretti, senza finestre. La guida prende un ragazzo del Virgilio per un braccio, lo invita a rimanere chiuso in una di quelle celle per qualche minuto. Una volta fuori il giovane è pallido, sconvolto, non parla. Attraverso il buio corridoio sotterraneo della fortezza arriviamo alla zona in cui i nazisti effettuavano le esecuzioni capitali dei prigionieri attraverso fucilazione e impiccagione. Rimangono a testimoniarlo un piccolo albero, una forca ancora intatta e una sorta di deposito dove venivano ammassati i cadaveri. Si calcola, approssimativamente, che qui vennero giustiziati almeno 800 prigionieri.
In memoria degli ebrei mantovani. In questo luogo di strazio e dolore Fabio Norsa, il presidente della Comunità Ebraica mantovana, chiede un attimo di raccoglimento per commemorare i 104 ebrei mantovani deportati e ammazzati nei campi di sterminio: scandisce i nomi, a uno a uno; i ragazzi del Mantegna e del Virgilio non fiatano, ascoltano, alcuni sembrano commossi. "Quelli che furono ammazzati ad Auschwitz ( la maggior parte, ndr) - ricorda Norsa - morirono tutti il 10 giugno del 1944. Partirono da Mantova cinque giorni prima, ammassati su un carro bestiame".
Il quarto cortile. Uscendo dalla zona del patibolo si passa il quartiere delle SS, con la casa padronale, la piscina e il cinema. Proseguendo si arriva al cosiddetto "quarto cortile". Costruito nel 1943, vide arrivare i primi detenuti nell'autunno del 1944 e nell'ultimo periodo dell'occupazione nazista in queste mura passarono più di tremila persone e in ogni cella comune erano rinchiuse fra le 400 e le 600 persone. All'interno di una di queste si conclude la visita al campo e la guida, un piccolo e simpatico signore ceco, coi capelli bianchi in perfetto ordine, saluta i ragazzi e si augura di incontrarli di nuovo, magari in un luogo meno triste di questo.
Krematorium. Ultima meta è il krematorium del ghetto posto a qualche chilometro dalla piccola fortezza. Da fuori sembra una costruzione qualunque, ma tutt'intorno centinai di lapidi e un enorme menorah in marmo, candelabro ebraico simbolo della perfezione di Dio, ricordano che lì andò letteralmente in fumo la vita di migliaia di ebrei. All'interno il forno è intatto, drammaticamente ben tenuto, tanto che sembra quasi non abbia mai smesso di svolgere la propria macabra funzione di "polverizzatore della vita". La visita al krematorium scuote emotivamente i ragazzi del Mantegna e del Virgilio, che perdono quasi l'uso della parola per qualche minuto. Solo una ragazza, andando verso il pullman, ci si avvicina: "Scusi, posso farle una domanda? Ma a che serve ricordare tutti questi orrori, vederli da vicino, toccarli quasi con mano, se poi c'è sempre qualcuno pronto a ripetere gli stessi sbagli, a fare guerre, a umiliare i più deboli?". Bell'interrogativo. L'unica risposta che ci viene in mente è che serve. E a dimostrarlo è la domanda stessa.
Emanuele Salvato
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