'Caro ministro Poletti, i giovani non emigrano per avere una vita più facile, ma nella speranza che sia più equa'
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- Gemaakt op 29 december 2016
- Gepubliceerd op 29 december 2016
"Centomila giovani se ne sono andati dall'Italia? Sì, ma non è che qui sono rimasti 60 milioni di pistola. Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo paese non soffrirà a non averli più fra i piedi".
Queste parole del ministro del Lavoro Giuliano Poletti continuano a far discutere, tanto che mozioni di sfiducia nei suoi confronti sono state presentate al Senato e alla Camera dalle opposizioni, ma pare siano sostenute anche da frange interne del Pd.
Le parole di Poletti, che proviene dal mondo delle Cooperative, sono state ritenute offensive dai moltissimi giovani italiani costretti a emigrare per trovare un lavoro dignitoso. O, semplicemente, per trovare un lavoro che l'Italia, paese dove ormai il lavoro è sinonimo di voucher e precariato, non era e non è in grado di offrire.
Fra questi giovani 'in fuga' c'è anche il nostro collaboratore Gabriele Falco, mantovano doc che vive e lavora in Islanda da ormai sei anni. A lui l'Altra Mantova ha chiesto di rispondere al ministro Poletti, anche a nome di tutti quei giovani, e non, che per un motivo o per l'altro sono stati costretti lasciare il loro paese.
Vivo all'estero da oltre sei anni e per questo più di un amico mi ha chiesto cosa pensassi dell'uscita infelice del ministro del lavoro Giuliano Poletti di cui tanto si è discusso nei giorni scorsi. A tutti rispondo la stessa cosa: fatico a comprendere esattamente a chi si riferisse il ministro parlando di "persone che è meglio non avere più tra i piedi". Forse non altro che una variazione sul tema "gufi e rosiconi", tanto caro al suo ex capo di governo. Cioè quelle persone che hanno sufficiente realismo e consapevolezza per non voler accettare ritmi, stili di vita e condizioni lavorative che questo governo, e tutti i suoi più recenti predecessori, vorrebbero invece imporre come unico modello possibile.
Ma se difficili da analizzare razionalmente, di pancia posso dire che le parole del ministro non mi sono proprio piaciute, perché prive di empatia e piene di rancore. Allo stesso modo, però, non condivido la troppa abusata definizione di "cervello in fuga" entrata ormai nel parlare comune come sinonimo di migrante "che ha studiato". Non mi piace il termine "cervello", perché credo suggerisca una definizione elitaria e solo una personalità tronfia, presuntuosa e narcisista può amare autodefinirsi in quel modo. E non mi piace neppure "in fuga", perché amo pensare che chi prova a costruirsi una vita 2.0 lontano chilometri da casa lo faccia attraverso una progettualità consapevole e non solo per fuggire o comunque sviare da qualcosa: i nostri problemi viaggiano sempre insieme a noi e non basta prendere un aereo per trovarvi magicamente soluzione.
Anzi, normalmente l'impatto con una cultura e un'organizzazione sociale completamente diverse, crea problematiche nuove, affrontabili solo con una profonda motivazione che non può essere solo un senso di disgusto verso il proprio paese, ma semmai un dignitoso, profondo rispetto per se stessi. Lasciare il proprio paese rappresenta quasi sempre una scelta destinata a durare nel tempo solo se, oltre che radicale, è anche adulta. Una scelta, cioè, dove si guadagna qualcosa e si perde qualcos'altro; in termini, innanzitutto, di affetti, ma perdita anche del senso di sicurezza che ti dà parlare la tua lingua e mantenere le abitudini che ci hanno accompagnato nella nostra crescita personale.
E proprio questo credo sia il punto più debole del pensiero del ministro Poletti e di chi, come lui, vede il recente fenomeno migratorio attraverso la lente del facile stereotipo del "lamentone italiano" che critica per il gusto di criticare: non si emigra perché predisposti alla lamentela, ma proprio perché incapaci di conviverci senza sprofondare in un senso di colpa verso se stessi.
Trasferirsi lontano da casa, siano sessanta, seicento o seimila chilometri, non è mai lo scopo di una vita, ma un mezzo per ottenerla. Vita che per l'uomo schizoide del ventunesimo secolo significa mediamente lavoro, reddito, servizi, fiducia e prospettive a breve e lungo termine per i figli. In cambio di tutto questo, si vive lontano dagli affetti, si torna qualche giorno ogni tanto notando nitidamente i segni del passare del tempo, pensando a cosa ci siamo risparmiati, ma anche a tutto quello che ci siamo persi. E ci si accorge, così, che amare il proprio paese da lontano viene molto più naturale che farlo da vicino.
Si dice che esista un solo amore che dura per sempre ed è quello non corrisposto. Ed è proprio questo amore impossibile che, in base alla mia quotidiana esperienza, provano tantissimi italiani che decidono di cercare altrove una vita più soddisfacente. Tutti o quasi tornerebbero, se pensassero di poter costruire a casa quello che hanno faticosamente costruito altrove. Ed è proprio questa parola "faticosamente", che a tutti i Poletti d'Italia sembra sfuggire.
Non si emigra pensando che la vita sarà più facile, ma nella speranza che sia semplicemente più equa. Mette un po' di tristezza accorgersi di non poter evitare il sospetto che sia proprio questa richiesta di equità e meritocrazia ciò che il ministro vorrebbe non avere più fra i piedi, in un paese dove la sensazione, più o meno fondata, di una classe dirigente elitaria incapace di provare la minima empatia verso il disagio del popolo è ogni giorno più radicata.
Gabriele Falco
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